Quali sono stati i percorsi che vi hanno condotto a formare la vostra band?Ci verrebbe da dire che la nostra band è nata per distillazione. Abbiamo cambiato numerosi elementi in questi anni. Alcuni componenti preziosi se ne sono andati, altri, preziosissimi, sono arrivati a dare il loro apporto. Come nella distillazione abbiamo spesso trovato spiriti sottili e liberi. Negli anni abbiamo avuto sempre la fortuna di incontrare persone che sapessero capire questo progetto entrandoci integralmente, come se fosse stato ideato da loro. Per noi questo è fondamentale perché il sapore della nostra “erbaccia amara” si arricchisce solo col contributo di tutte le parti.
Quanto conta la musica nella vostra vita?Sempre di più. La musica ci ha cambiato radicalmente. Ci ha permesso di esprimerci, di raccontare storie, di viaggiare, di conoscere il mondo da prospettive che non avremmo mai incrociato altrimenti. E’ anche una grande fatica, perché nessuno di noi vive ancora al cento per cento di musica, ma è una fatica che riempie e gratifica: forse è l’esperienza di vita più importante per ognuno di noi.
I giovani artisti quanto hanno da imparare dai loro predecessori?Beh, dipende dai giovani artisti. Noi ci consideriamo piuttosto degli artigiani della musica. La parola artista ci sembra forse eccessiva. Per quanto ci riguarda le ispirazioni sono venute da gruppi come i Pogues, i Dubliners o i Wiskey Priests, che hanno utilizzato in maniera eccelsa le loro musiche tradizionali. In regione ci siamo riagganciati ai vecchi gruppi di cantautori popolari come il Canzonîr di Dael o il Povolar Ensamble, gente che traduceva Brassens in friulano negli stessi anni in cui in Italia lo faceva De Andrè. E se si vuole continuare con gli insegnamenti, molto ci ha insegnato il punk con band fantastiche come Ramones, Violent Femmes, Clash o Mano Negra.
Quanto tempo c’è voluto per realizzare il vostro album progetto legato a “Bek”?Come già anticipato, la preparazione è andata avanti due anni circa, durante un periodo non proprio tranquillo per il gruppo. La realizzazione invece è stata velocissima: due giorni in montagna a fare le prese dei suoni in un teatro comunale, poi via a Milano per il missaggio da GG Galmozzi, fonico dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Insomma, gestazione lunga e sofferta, parto veloce. Forse avremmo dovuto chiamare il disco Elefant, piuttosto che Bek – capretto.
Passando ai testi… molti gruppi danno importanza soprattutto al lato musicale della canzone. Voi sembra invece rivalutiate il valore del testo… solo un’impressione?No, assolutamente, hai centrato il punto. Ci rifacciamo per quanto possiamo alla tradizione dei canzonieri popolari e dei cantautori e, in fondo, ci piace pensare di essere dei cantastorie. Siamo stati molto attivi socialmente, soprattutto nei primi anni di attività. Abbiamo suonato in mille contesti diversi, dai manicomi ai centri per gli anziani, ai carceri, agli ospedali occupati, dal Kosovo appena bombardato alla Serbia sotto stato di polizia. Ci confrontiamo molto su quello che facciamo e quello che cantiamo, abbiamo bisogno di essere tutti convinti e consapevoli. Abbiamo una nostra visione comune e ottimistica delle cose, e di questa suoniamo e cantiamo cercando di stimolare corpi, menti e anime di coloro che ci ascoltano.
Oggi i giovani si sentono spesso in un clima di precariato. Succede anche a chi fa musica?Certo, anche perchè fare musica, soprattutto dalle nostre parti, non è così facile. Spesso mancano i contesti in cui proporla. Nella vicina Slovenia ogni paesino offre ai ragazzi appositi spazi in cui suonare oppure organizzare concerti. In questo gli viene data totale autogestione e fiducia. E’ una cosa importante, perché porta a sviluppare qualità di ascolto musicali e responsabilità che noi neppure ci immaginiamo.
La cosa che ci affascina di più della ex Yugoslavia, almeno per quanto abbiamo potuto constatare noi, è l’attenzione che la gente ti concede quando suoni: si tratta di un ascolto attento e critico. Noi invece viviamo in un paese dove è difficile trovare spazi per suonare, come è difficile trovare contesti di socializzazione spontanei e svincolati dal mercato. E’ una situazione che alla lunga rischia di portare ad sorta di analfabetismo musicale ed emotivo. A volte abbiamo la sensazione che la gente invece di essere interessata e stimolata dalle novità musicali, ne sia impaurita, e scappi via per timore di quello che sta ascoltando. A questo punto sorge la domanda: e se fosse che la forte imposizione di musica dall’alto porti inevitabilmente ad una condizione di precariato musicale nel basso?
Quanto contano la sincerità e la naturalezza, quando si fa un disco?Dipende dalle intenzioni. Un disco può essere un prodotto molto sincero e sentito artisticamente, ma anche un prodotto meramente commerciale fatto per incamerare quattrini. Crediamo che la differenza tra i due sia piuttosto percepibile, ma solo a patto di aver sviluppato il senso critico necessario a filtrare i riflessi abbaglianti di tanti specchietti per le allodole. Crearsi un filtro critico adeguato è però un processo personale lungo e progressivo.
Se non c’è abitudine all’ascolto critico della musica, si finisce col non distinguere l’ultima tavanata americana da Rossini. Prendiamo per esempio una cosa apparentemente naturale come il mangiare: se sei abituato a scofanarti hamburger, finisci col rifiutare il sapore di un pomodoro appena colto perché non riesci a capirlo. Disintossicarsi da certi sapori chimici è un lavoro piuttosto lungo, crediamo lo stesso valga per le intossicazioni musicali.
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